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È possibile tradurre?

L’arte del traduttore (e dello scrittore) come tacita protesta contro la barriera delle differenze

| Michael Ignatieff, «Lettera internazionale», primavera 1991 |

LONDRA. È possibile tradurre? Nel corso di un recente incontro del Pen Club a Londra, Germaine Greer ha mosso un arguto e dotto attacco alla professione del traduttore. Con argomentazioni spiritose e sapienti ha mostrato, anche mediante numerosi esempi, come si possa snaturare la poesia e trasformarla in una smorta e ridicola sequela di parole, ogni qual volta si tenta di far approdare una composizione poetica al di là dell’abisso che divide due lingue. Quanto c’è di poetico nel linguaggio, ha insistito la Greer, è proprio ciò che si perde nella traduzione. Per usare un’espressione italiana, tradurre è tradire.

Queste affermazioni mi hanno fatto pensare. Rimuginavo fra me e me la frase: perduto nella traduzione. Dove vanno vocaboli e significati quando si perdono? Qual è il crepaccio in cui precipitano? Li immagino presi fra le membrane di due diversi linguaggi, al pari dei detriti spaziali fluttuanti fra la terra e la navicella che li ha espulsi. È un pensiero allarmante. L’idea di uno spazio fra due diverse lingue dove i significati galleggiano sperduti e abbandonati mi spaventa.

Lost in Translation (Perduto nella traduzione)* è il titolo che Eva Hoffman ha dato al suo affascinante libro, nel quale narra come dopo aver abbandonato, ancora adolescente, la Polonia, sia cresciuta nell’America del Nord. Che cosa ha perso di se stessa, si domanda la Hoffman, quando ha cessato di parlare quotidianamente il polacco, e a poco a poco l’inglese è diventata la lingua dei suoi più reconditi pensieri? Quali concetti sapeva dire in polacco e che non ha mai espresso in inglese? Una volta, essendo attratta da un uomo, si chiese in polacco: lo amo? Reiterando la stessa domanda in inglese, ne ricavò una risposta diversa. Pensare a quell’uomo, traguardandone l’immagine ideale attraverso il prisma della lingua polacca, era bastato per farle modificare completamente ciò che aveva visto e provato, nei suoi confronti. Quel che rischia di perdersi nella traduzione, scoprì, giace nelle misteriose aree subliminali del cuore.

È chiaro che chi pensa alla traduzione come a una trasposizione volta a creare un canale di comunicazione tra esperienze diverse, mette a repentaglio l’idea stessa di qualsiasi possibile traslazione in materia di differenze sessuali, razziali ed etniche.

Alcune donne sostengono che gli uomini sono incapaci di penetrare nel loro mondo e di capirlo: per il linguaggio che usano, per come pensano, per come vedono il mondo stesso. Nella lotta sostenuta dalle femministe per affermare il diritto a esplorare e a definire le loro esperienze in termini adeguati, si è sempre annidata una sfida all’idea che queste stesse esperienze possano essere trasferite ad altri. La maggior parte delle donne pensa, ovviamente, che tale possibilità sussista. In caso contrario, infatti, perché dovrebbero preoccuparsi di comunicare con gli uomini? Sembra, comunque, che si viva oggi in uno di quei periodi, spesso ricorrenti nella storia, nei quali molte donne sono indotte a ritenere che la loro soggettività sia un mondo a parte.

Lo stesso tipo di problemi si presenta nei rapporti interrazziali. I neri si chiedono: possono i bianchi, uomini e donne, capire cosa mai significa essere di pelle nera? Tuttavia, nella prassi consueta dei contatti umani, la questione non incide un granché. In effetti, il problema della comunicazione è talmente impellente che appare del tutto secondario accertare se nel trasferimento delle idee dall’uno all’altro qualcosa si perde. Ma per gli scrittori, per gli artisti, per i rivoluzionari, per coloro che sollevano le scienze dei popoli in schiavitù, per coloro che si sforzano di portare alla luce esperienze alle quali l’educazione e la condiscendenza al colonialismo hanno finora negato una voce, per tutti costoro il problema centrale è quello di sapere se l’uomo bianco può capire ciò che il nero sa.

La barriera delle differenze

Così come il femminismo, nel mondo del progresso, ha posto il problema dell’epistemologia della traduzione di idee fra sessi diversi, altrettanto hanno fatto – in campo razziale – le lotte per l’abolizione del colonialismo e per l’integrazione multiculturale nel nostro stesso ambiente sociale.

Nel quadro del nuovo scontro fra l’Islam militante e l’Occidente secolarizzato, i fedeli dell’uno hanno posto ai miscredenti dell’altro la stessa domanda: cosa mai potete capire? Cosa ne sapete della nostra fede, del nostro credo, dell’atto stesso del credere?

Senza dubbio si tratta di interrogativi che hanno messo in dubbio l’incredibile condiscendenza culturale dell’uomo bianco, per sua natura nichilistica e laica.

In tutti e tre i casi citati – sesso, razza, religione – si è vista mettere in atto, dunque, una difesa appassionata delle particolarità di certe esperienze alle quali, nei canoni dei libri importanti, di grandi opere d’arte o della storiografia ufficiale è stato sempre attribuito ben scarso valore. In tutti questi ambiti c’è stata una rivolta, a un tempo politica, culturale e sociale, per contrastare la visione imperialistica di coloro – spesso bianchi, maschi e laici – che si sono arrogati il diritto di definire l’ortodossia del mondo progredito.

Non so capire, comunque, perché dal sesso, dalla razza o dalla religione debba dipendere la visione del mondo. Forse stiamo vivendo in un’epoca – una fase necessaria – nella quale sembra che ciò si verifichi. Ma non sono certo che ne usciremo per entrare in una nuova era in cui la razza apparirà di scarsa importanza, il sesso interesserà, ma non tanto, la religione definirà soltanto la sfera della stretta osservanza, ma non l’epistemologia della visione. In futuro potremo guardare il passato e meravigliarci per l’eccesso di sensibilità manifestato nel definire il reale valore di questi fattori nei confronti dell’uomo. I nostri figli crescono oggi nell’idea, presa per buona, che non si è superiori a qualcuno per il solo fatto di essere bianchi, maschi e laici; essi potranno, perciò, rivolgersi indietro con il pensiero alla metà del nostro secolo e chiedersi come mai i loro genitori avessero accettato per vero il concetto che le differenze esistenti fra gli individui costituissero una barriera conoscitiva invalicabile.

Dove si collocano, allora, il traduttore e lo scrittore in questa fantasmagoria di discorsi sulle diversità? Penso che l’arte del traduttore sia un modo tacito di protestare contro l’idea, oggi diffusa, che sesso, specie, credo e cultura costituiscano limiti all’umana comprensione. Ai traduttori riesce di far sì che i bianchi leggano gli scritti dei neri, che i credenti conoscano i lavori degli infedeli, che le donne quelli degli uomini e così via. Chi lo sa se tutti costoro si intendono a vicenda? Chi lo sa se le traduzioni note sono nient’altro che delle approssimazioni? In effetti, nel piacere, nel riconoscimento, nell’identificazione – in tutte le emozioni, insomma, che colpiscono chi legge una buona traduzione – è insita un’identità umana comune che supera ogni differenza.

E gli scrittori? Anch’essi compiono l’azione del tradurre: anch’essi sono convinti che esistono canali di comunicazione fra le varie gabbie dove sono imprigionati l’io, la razza, il sesso e la fede. È questo, in fondo, lo scopo del raccontare: perché anche il più folle e introverso io narrante presume di poter comunicare; perché il solipsismo si può infrangere; perché il solo fatto di tradurlo nello scritto implica una possibilità di comprensione.

Esplorazione dell’alterità

In un mondo di certezze conclamate, di differenze che consistono nel sostenere come solo la tribù sia in grado di pervenire alla conoscenza, lo scrittore e il traduttore si fanno carico di penetrare nei mondi chiusi di tali differenze e di renderli accettabili agli altri. Il narratore impersonifica l’altro: scrive non per rivelare una qualche superiore identità insita nella specie umana, una qualche confortante unità che superi tutte le differenze, bensì soltanto per aprire canali di comunicazione fra le varie visioni di un mondo di per sé incommensurabile. Lo scrittore parte da un’unica premessa: possiamo essere diversi da quelli che siamo; possiamo trasferirci nella pelle degli altri; possiamo tradurre le parole.

Di recente siamo stati testimoni di un attacco condotto proprio contro queste premesse, un attacco che ha riguardato la forza stessa del romanzo e l’idea che un infedele sia in grado di comprendere l’intimo mondo dei credenti. I versi satanici hanno esplorato l’incredulità come un incubo, il dubbio come minaccia all’identità stessa dell’individuo. Per stare alle parole di Rushdie nel suo In Good Faith (In buona fede), i sogni di Gibreel – quelli che i musulmani considerano blasfemi – sono i sogni di un uomo “che dispera di recuperare la fede, di un uomo ossessionato, posseduto dal dubbio, dallo scetticismo, da domande e da risposte che ne turbano la fede e che si fanno, col tempo, sempre più lancinanti”. La possibilità che un uomo che anela alla fede possa essere posseduto anche da dubbi blasfemi fa sì che il romanzo sia l’unico e migliore ambito per compiere esplorazioni del genere.

Tuttavia per milioni di credenti, un’arte che esplora l’alterità, che compie opera di traduzione fra parole incommensurabili, che esprime la cacofonia delle voci più intime è un’opera blasfema. Un’arte che si sforza di tradurre diverse verità e di rendere plausibili i dubbi più atroci è un’arte che, per sua stessa definizione, nega l’unica verità insita nel testo sacro. Un atteggiamento mentale tanto integralista non è, però, proprietà esclusiva dei musulmani. Simili credenze abbondano anche in ambienti politici laici, così come in altre religioni: convinzioni assolute di questa natura tentano incessantemente di convertire, di modificare o di alterare il mondo dei miscredenti. La comunicazione prende a proprio modello il proselitismo: ci si dispone all’ascolto soltanto per scoprire altre vie per fare opera di convinzione, si entra nella pelle del miscredente solo per smascherare l’errore. Al contrario, la formula di comunicazione umana che difendo opera in tutt’altra maniera. Il traduttore e lo scrittore penetrano nei mondi di un altro linguaggio, di un altro modo di pensare, non per modificarli, non per convincerli a credere in qualcosa di diverso, bensì soltanto per renderli più accettabili. Talvolta, ammettiamolo, anche per condannare, criticare o esercitare la satira: mai per modificare, mai per convertire. Al fondo di tutto ciò agisce un’idea utopistica, una fede secondo la quale tra credenti e miscredenti, tra uomini e donne, tra varie culture, tra bianchi e neri può sussistere una sia pur limitata e parziale, ma genuina, comprensione delle eventuali differenze. Scrittori e traduttori possono rivendicare, allora, questa fondamentale proposizione della politica liberale: non tutto ciò che ci diciamo l’un l’altro si perderà nella traduzione. Cara Germaine Greer, credo proprio che tu abbia torto.#

Traduzione di Ludovico Luppis

* Lost in Translation di Eva Hoffman è uscito in italiano nel 1996 da Donzelli con il titolo Come si dice, per la traduzione di Maria Baiocchi; la stessa traduzione è stata ripubblicata nel 2021 da Il Margine con il titolo La lingua del tempo.

L’autore

Michael Ignatieff è un professore universitario, autore ed ex politico canadese. Noto per il lavoro di storico, ha insegnato a Cambridge, Oxford, Harvard, Toronto; più di recente è stato rettore della Central European University, a Budapest. Tra gli anni ’80 e il 2000, a Londra, ha condotto un’intensa attività come commentatore radiotelevisivo e sui giornali, in particolare «The Observer». Esperto di affari internazionali, scrive per autorevoli testate, tra cui «The New York Times Magazine», «The Guardian», «The Globe and Mail», «The New Republic», «Dissent».  Il memoir Album russo (Il Mulino, 1993) ha vinto nel 1988, in Canada, il Governor General’s Literary Award, mentre il romanzo Scar Tissue è stato nel 1994 finalista al Booker Prize.

Credits

L’articolo originale uscì sulla rivista trimestrale europea di cultura «Lettera internazionale», anno 7, n. 28, primavera 1991, p. 78, come corrispondenza da Londra. L’immagine in alto è tratta da questa pagina.

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