Milva e Astor Piazzolla
Lo spettacolo al Teatro Olimpico di Roma. Con un’intervista al compositore e bandoneonista
| Luca Damiani, «Ciao 2001», 31 maggio 1985 |
L’ingresso del Teatro Olimpico è affollato sin dalle 8. Questo conferma l’aura quasi leggendaria che accompagna lo spettacolo già dai suoi esordi parigini al Bouffes Du Nord. I due nomi hanno sommato i propri fan e la risultante di questo connubio presenta giovanissimi, signori che hanno conosciuto Milva sin dai tempi di Sanremo, gli amanti del teatro cabaret e anche quelli del tango. Tra la folla in frenetica danza alla ricerca di un biglietto sfreccia sicuro anche Gianni Agnelli, lasciando tutti lievemente impietriti per la mancanza di apparente scorta. Da questo punto in poi tutti sono comunque sicuri di essere al posto giusto al momento giusto e si rilassano.
Lo spettacolo inizia con solo un quarto d’ora di ritardo. La scena si presenta, semplice e splendida, con un enorme albero secco, gli strumenti al centro e due porte ai lati che si indovina saranno gli ingressi e le uscite di Milva. Un tango registrato introduce i cinque musicisti: con Piazzolla sorridente, compaiono antichi compagni come Horacio Malvicino alla chitarra, Hector Console e Pablo Ziegler (rispettivamente al contrabbasso e al piano, con i quali Astor ha inciso il suo ultimo e splendido “Live in Wien”) e Antonio Agri al violino. Sono loro che aprono con “La muerte del ángel” e che porgono l’entrata a un’affascinante Milva in lamé e scalza; le note di “Balada para mi muerte” non permettono al pubblico di applaudire la cantante se non alla fine; e si sente subito che la grande esperienza di Milva ha già creato una complicità con il pubblico romano, che più tardi confesserà di aver temuto molto.
Il programma prosegue con tutti classici del grande Piazzolla, cantati in italiano, francese e spagnolo. “Lunfardo”, “Verano porteño” e “Adios Nonino” sono gli assoli del gruppo che permettono alla cantante di cambiarsi d’abito. Grande emozione per “Balada para un loco”, amata e dal pubblico e da Milva, che la riproporrà anche come bis.
La limpida regia di Filippo Crivelli e le suggestive scene di Koki Fregni completano il miracolo di queste serate romane di grande spettacolo e di grande musica.
L’intervista con Astor Piazzolla
– Cosa ricorda degli anni di Senza Rete, delle trasmissioni con Mina e dell’Italia di quei tempi?
– Erano anni molto importanti. Era intorno ai primi anni ’70; il nuovo tango si affacciava per la prima volta in Italia. Ricordo che Milva cantava “Balada para mi muerte”, che è proprio il brano con cui ora entra in scena in questo spettacolo.
– Ci sono molte storie riguardo la sua partecipazione alla colonna sonora di Ultimo tango di Bernardo Bertolucci. Come sono andate realmente le cose?
– La cosa è andata più o meno così: Bertolucci mi ha chiesto di arrangiare le musiche di Gato (Barbieri); io però non sono un arrangiatore ma un compositore e non potevo quindi lavorare sulla musica di un altro, benché Gato sia un ottimo sassofonista. Poi, per scherzo composi “Penultimo tango” dedicandolo a Bertolucci.
– Cosa possiede Milva di argentino?
– Non saprei cosa ha di argentino; sicuramente abbiamo un modo di sentire e di porgere la musica simile. D’altra parte, se così non fosse, Milva non avrebbe scelto di cantare le mie musiche.
– Lei, molto tempo fa ha collaborato anche con Carlos Gardel, la leggenda del tango; cosa ricorda di questo grande cantante?
– Molto poco, ero giovanissimo; per un anno ho fatto da cicerone a Gardel che stava in America; così lo accompagnavo a fare spese e facevo anche l’interprete; poi ho collaborato anche al film El día que me quieras. Comunque se oggi dovessi accompagnarlo con il bandoneon sarei intimorito.
– L’Argentina, o meglio gli argentini sembrano avere una speciale predilezione per i miti: Gardel, Evita, Fangio. Per quale motivo?
– Non li chiamerei miti. Evita e Gardel sono una sorte di passione, ampiamente giustificata da quello che hanno dato all’Argentina.
– Lei ha spesso suggerito che il futuro della musica è nel tango. Cosa vuole dire esattamente?
– È una dichiarazione decisamente in polemica con coloro i quali verso gli anni ’50 non avevano fiducia in una evoluzione del tango; il tango non si può fermare alla “Cumparsita”.
– Nel suo libro dedicato al tango, Meri Franco Lao riferisce che lei è stato costretto dai discografici americani a inventare il jazz tango. Cosa è successo esattamente?
– È stata un’esperienza di cui bisogna fare tesoro, forse un errore, comunque era un momento in cui avevo bisogno di guadagnare e così mi sono lasciato trascinare in questa impresa. Sbagliando si impara.
– Lei in patria soffre di una strana considerazione; molti dicono che il suo non è tango. Eppure in tutti gli spettacoli di tango vengono eseguiti brani di Astor Piazzolla. Perché?
– È vero. Pensa che i taxisti a volte mi insultano dicendo che ho rovinato il tango. Il perché proprio non lo so.
– Lei è conosciuto in tutto il mondo. A Cuba c’è un locale dove si ascolta solo tango e dove accanto alle foto di Gardel ci sono le sue. Ha mai pensato di incidere qualcosa con musicisti cubani?
– Sono stato a Cuba e ho suonato al Teatro Karl Marx e al Varadero e, a giudicare dalla reazione del pubblico, la mia musica è stata molto apprezzata. Comunque in Argentina diciamo che non si mescola mai la vacca con i tori: quindi ognuno continui con la propria musica.
– Che tipo di musica ascolta?
– Di tutto, sia classica che contemporanea. Tra i giovani musicisti mi piacciono Pat Metheny, Pastorius e De Lucia.
– Lei legge?
– Pochissimo; in genere mia moglie legge per me e poi mi racconta.
– Chi è riuscito a compenetrare meglio il tango, Stravinskij o il Tango Project?
– Non c’è dubbio: si incontra molto più tango in Stravinskij che in qualsiasi altro esecutore di “Cumparsita”. #
L’autore
Critico musicale, scrittore e conduttore radiofonico, Luca Damiani è oggi noto al grande pubblico soprattutto per la conduzione, a mesi alterni, del programma musicale di Rai Radio3 “Sei Gradi”, in onda dal lunedì al venerdì alle ore 18. È stato anche consulente musicale per il programma “Passepartout” di Philippe Daverio. Ha scritto i romanzi Guardati a vita (Marsilio, 1990, vincitore ex aequo del Premio Grinzane Cavour nella categoria Giovane Autore Esordiente), Una, fatale (Marsilio, 1992, vincitore della prima edizione del Premio Fiesole), Il baro (Marsilio, 1997), Pow (Stampa Alternativa, 2018), e la raccolta di racconti Che ne sarà di lei (Loggia de’ Lanzi, 1995). Tra i saggi, Bufale: breve storia delle beffe mediatiche da Orson Welles a Luther Blissett (Castelvecchi, 2004). Qui una sua intervista a Radio Speaker.
Credits
L’articolo originale uscì sul settimanale musicale «Ciao 2001» del 31 maggio 1985. La foto in alto è tratta da un video su YouTube.